Óchi giaurtáki, sýntrofoi! Sk##á!
In quel mentre da due tre file, che si passavano la voce, si senti dire: «Á mmerda! Á mmerda!» E infatti cinque sei marani, addetti a quell’operazione, che si annunciava tanto carina, avanzavano dai vicoletti. Lesti lesti, piegati e rannicchiati, un po’ ridendo un po’ baccaiando, venivano avanti a passo di marcetta, coi mastelli in mano: mastelli, bagnarole, secchi. Tutti erano pieni d’una ciufega gialla scura, bella impolmonita. Presero e incominciarono a buttarla contro la porta e la parete dell’alberghetto. Ci voleva una tattica speciale, perche la merda, buttata, non rischizzasse addosso a chi la buttava e agli altri ch’erano intorno. Prendevano il secchio agili per il manico e per il fondo, e via, con un colpo secco, la scaricavano, uno qua uno là. C’era una tanfa che toglieva il fiato, e tutti ridevano, ridevano, sgriciolandosi.
Mano a mano ch’erano adoperati, i secchi vuoti riscomparivano. In quattro e quattr’otto ne rovesciarono contro la parete una decina. La ciufega colava sul muro, ch’era diventato tutto marrone. Tutti ormai stavano per fare la bella, quando, d’improvviso, annunciato da nuovi strilli, si vide passare con la faccia bianca e i capelli al vento, Coletta, col suo fagotto in mano, seguito dai compari.